CUSTOMER SATISFACTION? NO, GRAZIE.

di Marino Fadda "Eccellere"

Secondo un'indagine di Accenture, nell'ultimo anno sono aumentate le attese telefoniche e si sono allungate le procedure per richiedere assistenza. Sono segni della crisi? Oppure le aziende seguono un'altra strada: ha ancora senso "coccolare" il singolo cliente? Una rassegna di studi contro-corrente.

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In tempi di crisi economica, il customer service è spesso uno dei primi settori che cadono sotto la scure dei tagli effettuati dalle imprese per ridurre i costi. Questa soluzione comporta quasi sempre una riduzione dei livelli dei servizi offerti e, quindi, della customer satisfaction complessiva.

Una conferma di questa tendenza arriva dai risultati dell’annuale indagine condotta dalla società Accenture sulla soddisfazione del cliente (Accenture 2008 Global Customer Satisfaction Report).
Basata su 4.189 interviste, condotte negli Stati Uniti, Canada, Australia, Gran Bretagna, Germania, Francia, Cina, India e Brasile, l’indagine ha lo scopo di valutare le percezioni e le recenti esperienze avute dai clienti nei confronti del customer service delle imprese.

L’indagine ha evidenziato come, nel corso del 2008, la metà degli intervistati abbia cambiato diversi fornitori, appartenenti a differenti settori. La causa principale, sottolineata dal 67% degli intervistati, risiede nell’insoddisfacente esperienza vissuta con il customer service.

E’ una percentuale molto più alta di quella che ha cambiato fornitore perché ha trovato chi gli offriva dei prezzi migliori (53%). Gli intervistati si sono lamentati soprattutto del servizio offerto dal loro canale preferito, quello telefonico: lunghe attesa prima di poter contattare il servizio, dover ripetere a diverse persone lo stesso problema, dover parlare con persone che non hanno alcuna competenza ……

La crisi economica sembrerebbe, però, aver solo accentuato una tendenza che era già in atto da tempo e che, in qualche modo, potrebbe mettere in crisi uno dei dogmi del marketing, per il quale la soddisfazione del cliente e la sua conservazione sono strategici per la sopravvivenza di un’impresa. Infatti, da numerose indagini, eseguite nel corso del tempo, pareva ormai ampiamente verificato che trovare un nuovo cliente costasse molto di più che non conservane uno con il quale si era già costruito un rapporto.
Di conseguenza, per il marketing, la customer retention è divenuta da tempo una priorità assoluta e la soddisfazione del consumatore la via maestra per assicurarla.

Come abbiamo accennato, sembrerebbe invece che molte imprese stiano seguendo un’altra strada. L’indice di soddisfazione elaborato dall’Osservatorio del CFMT (Centro di Formazione creato da Confcommercio e Manageritalia) è sceso dal 70.4 al 63.8 in appena tre anni. Secondo Franco Cecere, esperto marketing della COOP, “non ha senso coccolare il singolo cliente…. La clientela ce la giochiamo su qualità e prezzo”. E, come osservato recentemente da Filiberto Tartaglia (E osano chiamarci clienti, Franco Angeli, 2008), ormai il cliente soddisfatto e fedele è diventato un costo che le imprese non vogliono più sostenere.

Insomma, sembrerebbe che, per molti imprenditori, la leva del prezzo sia lo strumento che sempre più spesso viene scelto per fronteggiare meglio la concorrenza sul mercato, a scapito della soddisfazione e della fedeltà del cliente.
E’ una visione un po’ miope del mercato, perché è ormai ampiamente dimostrato che utilizzare la leva del prezzo per obiettivi tattici ha quasi sempre dei benefici solo nel breve periodo. Il cliente, alla fine, dopo aver usufruito delle offerte più favorevoli, tornerà a richiedere qualità e servizi superiori.

Alla radice di questa impostazione c’è probabilmente un problema strategico che è forse stato sottovalutato dalla teoria del marketing, o non approfondito a sufficienza, e che ha generato una errata comprensione della natura della customer satisfaction: pensare che fosse sufficiente investire significativamente in qualità per raggiungere livelli elevatissimi di customer satisfaction (molto vicini al 100%) e quindi avere dei ritorni positivi in termini di reddito.

Questa impostazione può portare ad un aumento dei costi difficilmente sostenibili. Infatti, anche se nel breve periodo si riesce a mantenere i clienti soddisfatti e a ottenerne la fedeltà, in molti casi, dopo un certo periodo, il cliente soddisfatto e fedele diventa un costo significativo e può rivelarsi poco profittevole conservarlo.

Il marketing ha sempre sostenuto che, nel corso del tempo, i clienti fedeli tendono a spendere di più, servirli costa di meno, fanno un passaparola positivo: in poche parole, rappresentano un vantaggio e sono più profittevoli se confrontati con i clienti di più recente acquisizione. Pertanto, coltivando la fedeltà di questi clienti si garantisce un incremento della redditività aziendale.

Purtroppo, come evidenziato da V. Kumar (Il valore del cliente, Pearson Education, 2008), occorre riconoscere che non tutti i clienti fedeli sono profittevoli. In particolare, non è sempre vero che: a) i clienti fedeli sono meno costosi da servire; b) i clienti fedeli sono disposti a pagare prezzi più alti per gli stessi prodotti; c) i clienti fedeli svolgono un’efficace passaparola in favore dell’azienda.

La debolezza del marketing è stata forse quella di non aver sufficientemente approfondito il legame fedeltà-redditività, dato che “la fedeltà non garantisce in modo automatico la redditività e il rapporto che intercorre tra fedeltà e redditività è spesso più complesso di quanto percepito” (V. Kumar). Quindi, una clientela fedele non sempre è un bene per l’impresa: dipende dal costo sostenuto per ottenerne la fedeltà. Posto in questi termini, il percorso strategico da seguire diventa quello di implementare nel lungo periodo iniziative di customer management che abbiano successo.

Il problema non sta quindi nel mettere in discussione l’importanza della customer satisfaction e della customer retention, perché sarebbe estremamente fuorviante sottovalutare l’importanza che assume la “centralità del cliente” nella performance generale dell’impresa. Il problema sta invece nel riconoscere che l’analisi e lo studio della soddisfazione del cliente è un argomento di estrema complessità, che non può essere risolto chiedendo al consumatore se è soddisfatto. In questo senso, quello che occorre analizzare è in quali aree della soddisfazione del cliente (o, più nello specifico, del customer service) occorre investire. Riconoscendo che non è tanto importante quanto investire, ma come investire e che cosa migliorare (C. Fornell, Clienti soddisfatti, Franco Angeli, 2008, pag. 22).

Quello che le imprese devono quindi fare è liberarsi da false, o mai approfondite convinzioni, e sforzarsi maggiormente per arrivare a comprendere quello che realmente interessa ai clienti, investendo solamente sui veri e più importanti driver della soddisfazione.

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Spesso questo significa impegnarsi per “riposizionare” i livelli del servizio offerto, risparmiando denaro senza abbassare la customer satisfaction. Come hanno osservato A. Braff e J.C. DeVine (Maintaining the customer experience, The McKinsey Quarterly, dicembre 2008) alcune imprese hanno attentamente misurato i “breakpoint” (“punti di rottura”) per scoprire la vera sensibilità dei loro clienti ai cambiamenti nel livello di servizio. Applicando questa metodologia, un’impresa ha scoperto che i clienti che telefonavano al suo customer service avevano due breakpoint: rispondere al telefono immediatamente, dopo X secondi, forniva un’alta soddisfazione; lasciare i clienti in attesa per un tempo più lungo, superiore a Y secondi, procurava una grande insoddisfazione.
Tra questi due estremi, X e Y, i clienti erano abbastanza indifferenti ai livelli del servizio. Di conseguenza, quest’impresa ha deciso di ridurre i tempi di attesa sotto il livello Y, senza impegnarsi a raggiungere il livello di massima soddisfazione (al di sotto di X secondi): in questo modo, la diminuzione della customer satisfaction era irrilevante, mentre il risparmio nei costi del personale è stato molto significativo (sette milioni di dollari al’anno). Questa metodologia è chiaramente applicabile a casi più generali e complessi. Naturalmente, richiede una rigorosa e adeguata conoscenza della customer experience, in modo da comprendere esattamente che cosa interessa veramente ai consumatori e poter così individuare quali investimenti sono da ridurre o eliminare perché relativi ad aspetti su cui la loro soddisfazione è irrilevante. Si potrà così rispondere correttamente alla domanda: “quali sono gli aspetti del customer service che possono generare la più alta profittabilità?”.

E’ quindi attraverso questo percorso (fedeltà-redditività) che si può cercare di essere competitivi nel lungo periodo. Sapendo che è anche possibile coniugare l’impegno alla riduzione dei costi con una crescente soddisfazione del cliente: da questo punto di vista il caso della Dell Corporation è un buon insegnamento.

In tempi di crisi economica è difficile individuare le strategie più appropriate. Ma, almeno per quanto riguarda il discorso che abbiamo sviluppato, l’attuale negativa situazione potrebbe rivelarsi per le imprese un’ottima opportunità per rivedere in maniera più adeguata le modalità con cui hanno fin ad ora cercato di soddisfare i loro clienti, individuando strumenti più precisi ed efficienti per rispondere meglio alle loro aspettative.

(Fonte: Eccellere)

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