LE INFORMAZIONI DOCUMENTATE E LA ISO 9001: COME NORMARE L'ARTE DEL "SAPER FARE"

Gestire ciò che sembra non documentabile: strategie per la conoscenza tacita


documentare l'arte del saper fare nella ISO 9001

"Sappiamo più di quanto possiamo dire"
(Michael Polanyi, "The Tacit Dimension")

In ogni organizzazione esiste della conoscenza sommersa non documentata nei sistemi qualità ma determinante per il funzionamento quotidiano. Questo patrimonio invisibile non si accumula nei server aziendali o negli archivi cartacei ma nelle menti, nelle conversazioni di corridoio, nei gruppi WhatsApp non ufficiali.
Stiamo parlando di quel collega che "sa come far funzionare la macchina" quando si blocca. La procedura ufficiale dice di chiamare l'assistenza, ma tutti sanno che basta chiedere a Marco che "ha il tocco magico".

Questo "tocco magico" è un asset aziendale di valore inestimabile, eppure non compare in nessun documento, in nessun registro degli asset, in nessuna matrice delle competenze.

Se doveste mappare dove risiedono realmente le informazioni fondamentali per la vostra organizzazione, probabilmente vi ritrovereste davanti una topografia ben diversa dall'organigramma ufficiale o dalla mappa dei processi ISO 9001 perché il sapere tacito è fatto di:

  • anziani di reparto che conservano la memoria storica dell'organizzazione e conoscono i "perché" dietro ai "come"
  • persone che collegano i reparti in modo informale e che, pur non avendo ruoli riconosciuti, fanno fluire le informazioni tra le diverse aree aziendali
  • archivi personali come quaderni, appunti sullo smartphone o, semplicemente, ricordi individuali
  • reti relazionali basate sulla fiducia reciproca piuttosto che su gerarchie formali

Questa geografia invisibile spiega perché i progetti di knowledge management spesso sono fallimentari nel loro tentativo di mappare un territorio: semplicemente seguono le coordinate sbagliate.

LE PRINCIPALI CONOSCENZE CHE NON VENGONO DOCUMENTATE

La conoscenza non documentata si manifesta in forme diverse, ciascuna con proprie caratteristiche e ragioni d'essere. Possiamo identificarne, tra le altre, sei specie principali che vivono nascoste negli interstizi dell'organizzazione formale:

  • la conoscenza tacita individuale: rappresenta il sapere legato all'esperienza personale, difficile da articolare e da tradurre in parole.
    È il "saper fare" che si sviluppa con anni di pratica: come un operaio esperto riconosce un macchinario malfunzionante dal suono o come un venditore percepisce il momento giusto per chiudere una trattativa. Un'azienda di piccole dimensioni nel settore dell'arredamento di lusso aveva un artigiano che rifiniva a mano il legno. Nonostante numerosi tentativi di standardizzare il suo processo, incluse riprese video e misurazioni precise, nessuno riusciva a replicare la qualità delle sue finiture. "Non è questione di procedure" confessò, "è sentire il legno con le dita, ascoltarlo, rispettare la sua personalità" Questa conoscenza morì con il suo pensionamento;
  • le routine che emergono in modo naturale: sono procedure informali che nascono spontaneamente per colmare i vuoti tra i processi ufficializzati. Quando le procedure formali si rivelano insufficienti a fronte alla complessità della realtà quotidiana, le persone trovano "scorciatoie". Un modo intelligente per accedere a queste routine è creare un canale anonimo dove i dipendenti possono condividere le loro "scorciatoie" efficaci senza timore di essere puniti. Le soluzioni migliori verranno incorporate nelle procedure ufficiali;
  • la conoscenza dovuta all'anzianità: è la memoria istituzionale, la storia non scritta dell'organizzazione.
    Include gli errori che nessuno si è preso la briga di documentare, le soluzioni nate nell'emergenza che sono diventate prassi per alcuni, i compromessi accettati come inevitabili. Questa conoscenza spesso include verità scomode: "Non usiamo quel fornitore perché dieci anni fa ci ha lasciati a piedi" oppure "quel cliente va gestito con i guanti perché in passato ha minacciato di farci causa";
  • le conoscenze di confine: sono quelle che esistono tra i dipartimenti e le funzioni. Si tratta di meccanismi informali di coordinamento, traduzioni non ufficiali tra linguaggi specialistici di reparti diversi, compromessi operativi non scritti;
  • la conoscenza "politica": è il sapere delle relazioni di potere, delle alleanze, delle influenze. Si tratta di sapere a chi rivolgersi per far approvare rapidamente una richiesta, quali battaglie combattere e quali evitare, come muoversi per ottenere le cose sovvertendo le strutture ufficiali. "Se vuoi che una pratica passi in fretta, parla prima con Giulia dell'amministrazione, non seguire la procedura ufficiale". Questo tipo di conoscenza non sarà mai in una procedura, eppure determina come spesso si muovono le cose all'interno di un'azienda;
  • il sapere sommerso che si sceglie deliberatamente di non condividere: questa è forse la specie più difficile da accettare: informazioni che non si documentano volutamente. Possono includere i "trucchi del mestiere" che conferiscono un vantaggio, i metodi per aggirare controlli eccessivi o soluzioni creative che funzionano ma non rispettano i processi ufficiali

CHI DETIENE LE INFORMAZIONI INVISIBILI E PERCHE'

In ogni azienda esistono figure che, consapevolmente o meno, diventano depositarie privilegiate di qualche conoscenza non documentata. Questi "custodi" detengono un potere informale spesso inversamente proporzionale alla loro posizione nella gerarchia ufficiale. Vediamone qualcuno nel dettaglio.

I veterani rappresentano la memoria storica vivente dell'organizzazione. Hanno vissuto cambiamenti, crisi e tentativi falliti che non compaiono in alcun documento ufficiale. Detengono informazioni contestuali fondamentali: il "perché" dietro decisioni apparentemente illogiche, le ragioni per cui certi approcci sono stati abbandonati, le storie non raccontate di successi e insuccessi. Conservano gelosamente queste informazioni perché rappresentano il loro patrimonio di esperienza, la loro identità professionale e, talvolta, la loro fonte di sicurezza a livello occupazionale.

Una strategia efficace per portare alla luce la loro conoscenza tacita è fargli raccontare le loro storie in maniera strutturata. Ne parleremo più avanti in questo articolo.
Un altro modo, naturalmente, è affiancare a queste figure dei giovani talentuosi che possano apprendere da loro ma che siano anche in grado di spiegare "perché si fa quello che si fa".
Anche organizzare esercitazioni che simulano situazioni di emergenza può aiutare a capire di quali conoscenze ha bisogno un processo per funzionare bene. Togliere per un giorno l'esperto dal suo processo e vedere cosa accade, ovviamente in maniera controllata, può fare luce su diverse conoscenze implicite.

I connettori sono figure che, per posizione o attitudine, operano all'intersezione tra funzioni diverse. Sono assistenti, project manager, tecnici che lavorano con più reparti e, in generale, professionisti che accumulano conoscenza non documentata sulle dinamiche relazionali, sui linguaggi specialistici di diversi gruppi, sui canali informali utilizzati per far accadere le cose. Custodiscono queste informazioni perché conferiscono loro un ruolo insostituibile di "traduttori" e facilitatori.

Un modo per accedere alle conoscenze tacite di questi professionisti è coinvolgerli in un progetto di miglioramento della comunicazione inter-funzionale, chiedendo loro di disegnare la mappa di chi contattare per specifici problemi.
Un altro modo è chiedere al connettore di tenere un diario per due settimane di tutte le volte che ha "sbloccato" qualcosa o risolto un problema di comunicazione per analizzare i singoli casi specifici.

Gli innovatori sono coloro che, di fronte ai limiti delle procedure ufficiali, sviluppano soluzioni creative. Spesso operano nei livelli operativi, dove l'aderenza rigida alle procedure si scontra con la realtà quotidiana. Custodiscono saperi non documentati perché questi rappresentano il loro contributo unico, la loro risposta creativa ai vincoli organizzativi e, talvolta, una forma di resistenza all'imposizione di regole percepite come inefficienti.

In questo caso, l'unico modo per accedere al patrimonio di conoscenze di queste persone è garantire loro uno spazio protetto dove possano condividere le soluzioni non ufficiali senza il timore di essere giudicate per non aver seguito le procedure.
Gli innovatori andrebbero anche coinvolti nella revisione delle procedure ufficiali, per renderle più applicabili.

I custodi del potere detengono deliberatamente informazioni non documentate come forma di capitale personale. Possono essere manager che mantengono relazioni privilegiate con alcuni clienti chiave, esperti tecnici che proteggono conoscenze specialistiche o figure amministrative che conoscono i percorsi nascosti per navigare all'interno della burocrazia aziendale. Preservano queste informazioni perché rappresentano la loro leva di influenza, la loro indispensabilità e, talvolta, l'unica forma di sicurezza in ambienti lavorativi instabili.

I custodi del potere sono forse i più complessi da gestire, poiché la loro conoscenza è una fonte deliberata di potere e sicurezza. Esistono, però, alcune strategie che potrebbero rivelarsi efficaci. La prima è la creazione di occasioni formali in cui si riconosce l'expertise unica di queste persone, offrendo loro visibilità e stato in cambio della condivisione di ciò che sanno tramite un programma di coaching e affiancamento. Bisogna riuscire a fare leva sul desiderio di lasciare un'eredità professionale duratura, particolarmente efficace con chi è vicino alla fine della carriera. Si potrebbe spiegare che l'esperienza di queste persone è unica e irripetibile e che si vuole creare un programma dove la loro metodologia viene insegnata alle prossime generazioni.

In tutti questi approcci, l'elemento chiave è creare un contesto dove la condivisione della conoscenza tacita offra al suo custode benefici che compensino la percepita perdita di esclusività o potere.

COME SI DIFFONDONO LE INFORMAZIONI NON DOCUMENTATE

Comprendere come la conoscenza non documentata si riproduce e si diffonde è essenziale per provare a gestirla efficacemente.

Uno dei meccanismi più antichi di diffusione del sapere tacito è la trasmissione attraverso l'apprendistato. Le conoscenze non codificabili passano attraverso l'osservazione, l'affiancamento, la pratica guidata. Questo processo richiede tempo e vicinanza fisica ma produce una trasmissione della conoscenza approfondita e ben contestualizzata.

Un altro modo di diffondere la conoscenza non codificata è attraverso le storie, gli aneddoti, i casi emblematici condivisi durante le chiacchierate informali. Le pause caffè, i pranzi aziendali, le conversazioni nei corridoi diventano vettori di trasmissione di esperienze, lezioni e soluzioni efficaci. Queste narrazioni, a differenza delle procedure formali, veicolano informazioni ma anche emozioni, valori e significati, rendendole particolarmente degne di essere ricordate. Le storie trasmettono simultaneamente fatti, contesti, emozioni e valori in un formato facilmente riutilizzabile. Creare, ad esempio, un "knowledge café" mensile dove gli anziani dell'azienda raccontano storie di come si sono risolti i problemi e di cosa si è imparato sbagliando, è estremamente utile. Queste lezioni si possono registrare e rendere disponibili per i nuovi assunti. A volte si impara di più da una storia e dall'esperienza di qualcuno che dai manuali tecnici!

Un altro modo in cui si diffonde la conoscenza non formalizzata sono gli strumenti personali. Fogli Excel personalizzati, note private, sistemi di classificazione di alcuni reparti non sono altro che tentativi individuali di codificare le conoscenze tacite ma in forme così personalizzate da risultare incomprensibili o inutilizzabili da altri. Questi strumenti si diffondono spesso per imitazione adattativa, con ogni nuovo utente che modifica lo strumento secondo le proprie esigenze e capacità di comprensione.

PORTARE ALLA LUCE SENZA DISTRUGGERE

Se la conoscenza tacita è tanto inevitabile quanto potenzialmente pericolosa, la domanda non è "come eliminarla?" ma "come conviverci costruttivamente?". Il problema ricorda un po' quello dei biologi marini: come studiare un ecosistema degli abissi che si disintegra non appena lo porti in superficie?

Occorre creare sistemi che riconoscano, valorizzino e integrino la conoscenza tacita senza snaturarla. Servono approcci che possano mappare l'invisibile senza renderlo rigido, che documentino l'essenziale senza soffocare l'emergente, che formalizzino senza fossilizzare.

Prima di imparare a gestire la conoscenza tacita, bisogna cartografarla e qui la qualità ha molto da imparare dall'antropologia: non si comprende una cultura indigena somministrando questionari, ma immergendosi in essa. Allo stesso modo, la conoscenza tacita può essere mappata solo attraverso una vera e propria immersione nei contesti in cui vive.

Facciamo subito un esempio: l'audit tradizionale verifica la conformità di ciò che viene fatto rispetto alla documentazione. Quello che potremmo chiamare "audit inverso" fa l'opposto: osserva come si lavora davvero per poi confrontarlo con ciò che è stato documentato, identificando i gap non come non-conformità, ma come opportunità di apprendimento.

Un altro modo di procedere particolarmente efficace è la mappatura cognitiva delle decisioni tacite che consiste nell'identificare quei momenti in cui l'esperto fa scelte fondamentali basate su criteri che non sa articolare esplicitamente. Chiedere agli esperti di "pensare ad alta voce" mentre prendono decisioni aiuta a rendere visibili a loro stessi i modelli di pensiero che seguono inconsciamente. Lo scopo di questo lavoro non deve essere quello di produrre procedure da seguire pedissequamente ma di creare una mappa del territorio che si possa usare per orientarsi.

Si possono poi individuare quelle persone che sanno mettere in pratica la conoscenza tacita ma sono anche in grado di spiegare perché agiscono in un certo modo.

Raccogliere le storie che circolano nell'azienda a livello informale è un altro modo per provare ad analizzare le conoscenze tacite, questa volta alla ricerca di valori, priorità e insegnamenti che nessuna procedura potrebbe mai contenere.

Ma come documentare tutto questo senza correre il pericolo di scatenare nuova conoscenza tacita che sfuggirà, inevitabilmente, alle procedure troppo rigide? Puntando a documentare solamente il "cosa" e lasciando che il "come" rimanga più flessibile e capace di adattarsi in base a principi, invece che a procedure. Ad esempio, si possono documentare i punti di controllo critici e i principi guida e lasciare il resto alla competenza delle persone. In questo modo non si teneterà di prevedere ogni possibile problema ma si fornirà la documentazione minima capace di offrire linee guida e principi decisionali che orientino l'azione in contesti troppo variabili per essere rigidamente normati. "Abbiamo sostituito la nostra procedura di gestione reclami di 30 pagine con cinque principi fondamentali e una raccolta di casi come esempi" raccontò un responsabile del reparto customer service. "Non diciamo più agli operatori esattamente cosa dire in ogni situazione ma forniamo loro dei principi da seguire". Fornire dei modelli che hanno funzionato in contesti simili e i principi che li rendono efficaci aiuta ma non rende il lavoro troppo rigido, lasciando spazio alla professionalità dell'ufficio o del reparto.

QUANDO ACCETTARE LA CONOSCENZA TACITA E COME GESTIRLA

La qualità ci ha insegnato che ogni conoscenza non documentata è un rischio da mitigare e che gestire la conoscenza è la base per ogni sistema qualità davvero efficace. Questo resta vero, naturalmente, ma non tutta la conoscenza può essere documentata senza perdere valore in questo processo. Ci sono ambienti, ad esempio, in cui il tempo necessario per documentare nei dettagli un processo potrebbe superare la vita utile di quello stesso processo, ad esempio nel caso di alcune startup tecnologiche.

Certe forme di esperienza, poi, sono intrinsecamente incorporate nei corpi, nei sensi, nelle emozioni, non nella mente razionale e il tentativo di tradurle in procedure scritte inevitabilmente ne distruggerebbe l'essenza. Tutto questo fa parte della professionalità che va maturata svolgendo il lavoro in affiancamento con i colleghi più esperti e anziani. Non si può documentare al 100% il processo di analisi sensoriale di un maestro enologo perché la profondità del suo giudizio deriva da decenni di esperienze sensoriali impossibili da codificare. In casi come questo si può optare per un programma di apprendistato dove i futuri enologi lavoravano fianco a fianco con il maestro. La conoscenza, in questo modo, viene trasmessa attraverso l'esperienza condivisa, non attraverso una procedura.
Quello che si può fare in casi come questo è realizzare una mappa delle conoscenze critiche non documentabili in modo da avere ben chiaro dove risiedano e implementare strategie mirate di ridondanza e trasferimento per assicurarsi che siano distribuite tra più persone.

Un altro metodo pragmatico per gestire la dipendenza da conoscenze non documentate è simulare deliberatamente l'assenza temporanea dei suoi custodi. Una volta ogni tanto, si può rimuovere temporaneamente un esperto dal processo e vedere come se la cavano le persone che rimangono per osservare dove emergono i problemi e identificare i punti di vulnerabilità di quel sistema. Una bella sfida per qualunque quality manager, non pensate?

La vera sfida in questi casi è creare un sistema integrato dove formale e informale coesistono in un equilibrio dinamico, ciascuno compensando i limiti dell'altro.

È tempo, quindi, di ripensare radicalmente come interpretiamo e implementiamo uno dei requisiti più fraintesi della ISO 9001: il punto 7.5 sulle informazioni documentate. La sua interpretazione convenzionale ha portato a una proliferazione burocratica che spesso soffoca l'intelligenza organizzativa invece di potenziarla.

Il primo cambiamento è ripensare lo scopo fondamentale della documentazione: non dimostrare la conformità a terzi, ma supportare l'efficacia operativa dell'organizzazione. Fatevi questa domanda: "Se non esistessero auditor esterni, quale documentazione manterremmo comunque perché ci è davvero utile?" Gli auditor, tra l'altro, dovrebbero percepire immediatamente quando una documentazione è davvero utilizzata, rispetto a quando simula un teatrino messo in scena per loro.

Una reinterpretazione radicale del punto 7.5 richiede di ripensare cosa documentare: non i passi dettagliati di ogni processo, ma gli intenti, i principi e i confini che definiscono lo spazio all'interno del quale i processi possono evolversi autonomamente. Vanno definiti:

  1. l'intento del processo (perché esiste)
  2. i parametri critici da rispettare (i confini invalicabili)
  3. i risultati attesi (cosa deve essere raggiunto)
  4. le evidenze necessarie (cosa deve essere dimostrato)

Tutto il resto può tranquillamente essere lasciato alla competenza professionale del personale, supportata da formazione, coaching, collaborazione e cultura.

Una mappa geologica, una mappa stradale e una mappa topografica dello stesso territorio sembrano completamente diverse perché servono scopi diversi. Allo stesso modo, la documentazione di un processo deve essere adattata ai suoi utenti e ai suoi scopi. Uno stesso processo può essere documentato in modi diversi per persone diverse: mediante una sintesi visuale per i nuovi assunti, con checklist essenziali per gli operatori esperti, con una mappatura dettagliata per chi lavora sul miglioramento del processo.

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